L’8 febbraio la Commissione europea ha annunciato il raggiungimento di un accordo sulla Direttiva relativa ai lavoratori digitali (“platform worker”). Chi avesse letto i commenti della stampa in quei giorni sarebbe rimasto disorientato. Mentre “Il Fatto quotidiano” bocciava senza appello l’accordo parlando di “Direttiva annacquata”, “il Manifesto” lo promuoveva, sia pur con qualche distinguo (“non è necessariamente un depotenziamento”).
Per le anarchiche/i questa tortuosa vicenda legislativa è l’ennesima riprova che solo con la lotta e non con il voto si possono ottenere significative conquiste.
Ma vediamo di inquadrare il problema: i “platform worker” costituiscono un nuovo proletariato digitale in rapida espansione. Persone assunte, controllate, pagate da una piattaforma digitale, in genere a cottimo e senza nessuna garanzia. Tra queste persone alcune operano esclusivamente online, altre prestano servizio sul territorio (rider, autisti di Uber ecc.). Costituiscono già un numero significativo, nella sola UE erano almeno 28 milioni nel 2022 e diventeranno 43 milioni nel 2024.
Una normativa sulla tutela delle lavoratrici/tori digitali era attesa dal 2017, ma solo a dicembre 2021 la Commissione europea ha presentato una bozza di Direttiva i cui punti salienti erano due: obbligo di trasparenza degli algoritmi utilizzati per la gestione del personale, presunzione dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato (salvo prova contraria) quando si presentassero almeno due dei seguenti cinque parametri:
1) determinazione da parte dell’azienda del salario o di un tetto allo stipendio; 2) imposizione di regole su come deve essere svolto il lavoro 3) vigilanza sul lavoro anche mediante strumenti elettronici; 4) restrizioni alla possibilità di organizzare il proprio orario di lavoro, di rifiutare un incarico o di trasferirlo a terzi; 5) restrizioni alla possibilità di allargare la propria clientela o di lavorare per altre piattaforme. Secondo la Commissione questa Direttiva avrebbe consentito di regolarizzare almeno 5,5 milioni di platform worker, attualmente considerate lavoratrici/ori autonome/i.
Diversi organismi sindacali (sia di base che concertativi) avevano criticato da subito le norme come “ingenue” mettendo in luce sia la capacità delle piattaforme di bypassarle sia il fatto che in alcuni Paesi europei esistevano già leggi più avanzate (specialmente la “Ley rider” in Spagna) che rischiavano di venir depotenziate dalla normativa europea. Da parte loro le multinazionali avevano messo in atto tutte le loro capacità lobbistiche per sabotare l’iter legislativo.
Dopo due anni di melina (e una battuta d’arresto a dicembre 2023) si è arrivati all’attuale compromesso. Resta l’obbligo di trasparenza degli algoritmi e (udite udite) viene proibito il licenziamento del personale attraverso procedure automatiche. Cioè non sarà più l’algoritmo a licenziarti (magari post mortem, come era accaduto allo sventurato rider fiorentino Sebastian Galassi) ma il licenziamento dovrà essere deciso da un essere umano (!).
Spariscono invece i famosi cinque parametri e rimane la presunzione di lavoro dipendente in base (più genericamente) alla presenza di “fatti che indicano il controllo e la direzione, secondo la legge nazionale, i contratti collettivi o la prassi in vigore negli Stati membri e tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia”.
Meglio (come ipotizza “Il Manifesto”) o peggio (come scrive “Il Fatto quotidiano”)? Difficile dirlo, ma a pensare che ci stanno prendendo per i fondelli ci si azzecca sicuramente.
Infatti l’accordo è solo il punto di partenza di un percorso ancora lungo e pieno di insidie. Il testo della Direttiva dovrà essere approvato nuovamente da Parlamento e Consiglio europeo (cosa tutt’altro che pacifica vista l’opposizione di diversi Paesi). La Direttiva, una volta varata, non sarà poi immediatamente prescrittiva, ma dovrà essere tradotta in legge nazionale da ciascuno Stato membro. Ci vorranno quindi ancora anni, sempre che le lobby non riescano a bloccare tutto.
Credere che una legge possa essere risolutiva è illusorio. In Italia la famigerata legge 128/2019 (fortemente voluta dal M5S) anziché fare chiarezza ha creato un vero e proprio guazzabuglio giuridico demandando la definizione dello stato giuridico dei ciclo-fattorini ad “accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative”, con possibilità di derogare le norme anche in peggio (cosa puntualmente realizzata dal famigerato CCNL UGL-Assodelivery).
Anche il ricorso alla magistratura è una illusione miope che precipita lavoratrici e lavoratori in una “guerriglia” giudiziaria senza fine nella quale le multinazionali, difese da stuoli di avvocati ben pagati, sono destinate ad avere l’ultima parola. Solo l’organizzazione di classe delle sfruttate/i e la lotta possono ribaltare un tavolo in cui si gioca con le carte truccate. (Precedenti articoli: UN n. 23/2022; 15, 19, 24/2023; 1/2024. Un approfondimento uscirà sul prossimo numero di “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe”).
Mauro De Agostini